Villa Albani Torlonia
Dentro Roma si nasconde la settecentesca Villa Albani Torlonia, invisibile agli occhi dei passanti, nonostante occupi quasi dieci ettari di giardini e abbia una collezione d’arte ricchissima. Inizialmente era impossibile non notare la villa - fondata dal cardinale Alessandro Albani (1692-1779) - perché era sotto lo sguardo di tutti, soprattutto di intellettuali e artisti che qui sperimentarono idee innovative su arte, estetica e patrimonio culturale, tutt’ora alla base della cultura occidentale. Questo luogo fu l’occhio del ciclone anche di enormi rivolgimenti storici, in particolare nel 1870, quando a Villa Albani fu firmata la resa dello Stato Pontificio, che determinò la fine del potere temporale dei papi e l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Nel giro di pochi anni, a causa della crescita urbana dovuta proprio alla nascita di Roma capitale d’Italia, questa villa suburbana - già sorta in campagna - fu circondata da un’ondata di palazzi ottocenteschi e novecenteschi, costruiti per la nuova borghesia italiana. Terminò così il protagonismo di Villa Albani e le sue mura divennero dighe del tempo, a retaggio di un passato che proprio lì si era fermato per sempre. Lentamente la villa sparì dai ricordi della gente tanto che, oggi, la maggior parte degli abitanti della zona non sospetta l’esistenza del luogo, custodito gelosamente dalla nobile famiglia Torlonia. Nonostante le ampie mura che circondano l’edificio, esiste un punto di contatto col presente: la facciata della Kaffeehaus della villa, che appare improvvisamente presso Via Frosinone, anche se più in basso rispetto alle vie circostanti, perché i giardini includevano terrazzamenti. Il contesto appare degradato, in contrasto col resto dell’invisibile Villa Albani e col resto dell’elegante quartiere borghese. La strada si infrange sul cancello arrugginito della Kaffeehaus, che sembra abbandonata, oscurata dagli edifici, dal ponte della soprastante Via Savoia e da contorte rampe di scale imbrattate dai graffiti. Eppure questo spazio nascosto appare tutt’altro che morto. Dalle porte dei vicini garage entrano ed escono auto, mentre i ragazzi del quartiere si fermano proprio qui a chiacchierare, seduti nei gradini perché lontani dal rumore del traffico, oppure sotto al ponte di Via Savoia per ripararsi dalla pioggia. È quindi una minuscola realtà vicino a un grande passato, ma in grado di concentrare alcune contraddizioni urbane del presente, dove si incontrano e si scontrano non solo epoche e civiltà, ma anche modi di essere differenti. Si tratta di un luogo di contaminazione che sotto la pioggia, durante il nostro intervento artistico, non ha smesso di essere vivo anzi, essendo ribassato, ha amplificato i suoi rumori e reso le immagini fotografiche suggestive e quasi drammatiche, ricche di contrasti fra luci ed ombre. Viceversa è stato difficile dipingere, tracciare linee e colori sulla tela, perché tutto era inondato, non solo dalla pioggia, ma anche dal convergere dell’acqua proveniente da varie altezze: muri, palazzi e ponti. Nonostante si sia cercato di imprimere insistentemente sulla tela l’identità del luogo, cioè l’immagine della Kaffeehaus, il risultato finale è indefinito: i colori non si sono amalgamati e la superficie pittorica presenta pure tracce di sporco. Il cancello della Kaffeehaus, benché sia l’unica porta ideale per immaginare il passato di Villa Albani, sembra imprigionare un presente tanto fluido quanto confuso, informe, non esprimibile. La prospettiva chiusa di via Frosinone si è invece inaspettatamente aperta il mattino successivo, dopo la pioggia, a cielo sereno. Durante la fase di ritocco della tela, recuperata presso i cancelli della villa, i raggi del sole hanno direttamente illuminato, per un tempo limitato, la facciata della Kaffeehaus e i suoi sotterranei ci hanno così mostrato un antico tesoro intatto, come se fosse un miraggio. In quel momento sono apparsi dall’ombra, dietro al cancello, le statue del “gabinetto egiziano”, cioè una parte della collezione di Villa Albani costituita da sculture egizie ed egittizzanti, fra cui un elefante, sfingi, divinità e al centro la statua colossale di un faraone tolemaico: Tolomeo II, vissuto fra il IV e il III secolo avanti cristo. Abbiamo così scoperto di aver assistito a un piccolo “Miracolo del sole” romano, proprio negli stessi giorni in cui, all’alba, la luce penetra nel tempio egizio di Abu Simbel per illuminare la statua di Ramesse II e le principali divinità egizie. La pioggia della sera precedente ci è quindi sembrata un’inondazione propiziatoria, dove l’inizio e la fine della piena hanno ben rappresentano il ciclo vitale contemporaneo: la vita e l’arte continuano a crescere spontanee, piene di contraddizioni, ma nutrendosi delle radici di luoghi lontani e vicini.