
Le cave della Tenuta di Tor Marancia
Esiste un’area del parco di Tor Marancia un po’ solitaria, costituita da alte pareti di roccia vulcanica e fitta vegetazione. Si tratta di uno scenario selvaggio, ma non naturale, perché causato da millenni di sfruttamento di cave di pozzolana: un materiale che fu fondamentale per realizzare, fra le altre cose, i monumenti dell’antica Roma. In particolare, il luogo si è trasformato fra il XIX e il XX secolo, quando si è intensificata l’esportazione di enormi quantità di terreno, parzialmente sostituito dall’immissione di detriti provenienti da altri cantieri edilizi. Tutto ciò ha stravolto questa fetta di paesaggio, cancellando tracce di un passato rurale, profondamente legato a Roma. Abbiamo così perduto torri medievali, catacombe, edifici di culto pagano e soprattutto le rovine di una villa romana, che qui sorgeva e di cui si conservano soltanto alcune opere nei Musei Vaticani. Ogni cosa è ridotta in briciole e tutto sembra tornato a uno stadio primordiale, perché l’attuale piano di calpestio degli scavi è finito più in basso della storia umana. Rimane soltanto la roccia nuda, dove sono leggibili i vari strati delle eruzioni vulcaniche che generarono queste colline, prima che l’uomo le abitasse. Inevitabilmente, le cave di Tor Marancia fanno pensare al ciclo di creazione e di distruzione, che è insito nella natura e negli esseri umani. Ma viene anche da riflettere su quanto sia importante mantenere una memoria, per non incorrere nell’errore di cancellare un territorio e il suo patrimonio. Una necessità doverosa, se si pensa pure alle vicine cave delle Fosse Ardeatine - distanti poche centinaia di metri - dove, durante la seconda guerra mondiale, furono uccisi e sepolti molti innocenti che devono continuare a essere ricordati, per non desertificare nemmeno l’animo. Nel contesto delle cave di Tor Marancia, così piene di storia eppure così spoglie della propria sostanza, l’abituale azione di dipingere le tele sotto la pioggia - per lasciarle poi asciugare e sedimentare nel territorio - acquista un’intensità drammatica. Si è infatti cercato di portare al limite la tensione fra ciò che si dipinge, col colore, e ciò che si diluisce, attraverso l’esposizione alle intemperie. In particolare, la tela depositata vicino alla parete di roccia vulcanica - corrosa dallo sfruttamento della cava - ha perduto buona parte delle sue tonalità ed è tornata ad essere quasi bianca, come era in origine, primitiva. L’opera è coperta da minuscoli detriti di terra, a ricordare come queste colline siano state mangiate dall’uomo e si evidenzia soltanto qualche sfumatura di colore, a memoria di un ricco passato ormai perduto. Invece, la seconda tela è stata più protetta dalla pioggia, nascosta in un canneto, perché conservasse meglio la trama pittorica. Il ricordo di una remota bellezza, simboleggiata dai colori ispirati al paesaggio circostante, è quindi più tangibile. Del resto, si ha la sensazione che qualcosa sia rimasto della complessità di questo territorio, grazie alla natura e all’attuale inserimento di Tor Marancia nel Parco Regionale dell’Appia Antica. È il riscatto di una periferia verde, ancora in disparte rispetto a luoghi più monumentali, ma che si sta rivalutando, dopo aver rischiato di perdere la propria identità. Pertanto, ha avuto un valore simbolico anche tornare nel sito a distanza di qualche giorno, non solo per recuperare le opere, ma soprattutto per ritoccare e consolidare il colore, sopravvissuto agli eventi. Così il cambio stagionale, l’alternanza della pioggia e del sole, si è andato a conciliare con il moto perpetuo di creazione e distruzione. Lentamente, dai detriti del passato, rinascono nuovi mondi, rappresentati dalle gocce dipinte sulle tele.